Se si sfogliano le preziose pagine del Saggio di una ampelografia universale di Giuseppe dei Conti di Rovasenda (l’insigne ampelografo, di cui ricorre il bicentenario della nascita proprio quest’anno) pubblicato nel 1877, alla voce “Dolcetto” troviamo una singolare considerazione, che oggi suonerebbe improbabile: “Questa è forse l’uva più diffusa nell’Alta Italia (sic)”. L’affermazione pare confortata da un altro testo di indubbio interesse per la storia del vino piemontese, Ampelografia della provincia di Alessandria, a cura di P.P DeMaria e C. Leardi, risultato di una serie di studi, avviati dalla Commissione ampelografica del Ministero dell’agricoltura nell’aprile del 1869: “È vitigno proprio e caratteristico dell’alto Monferrato e dei vigneti della regione subappennina, dei colli del Tortonese fino a quelli del circondario di Mondovì. In essi (…) domina si può dire sovrano, raggiungendo ora il quarto, ora il terzo, ora la metà della coltivazione, ed in alcuni luoghi formandone quasi la totalità”.
Senza ombra di dubbio, una presenza così ampia, riconosciuta e capillare, ha da sempre confortato l’interpretazione dell’origine piemontese del vitigno e, più precisamente, della culla del dolcetto nell’area del basso Piemonte, a pochi passi dal confine, puramente amministrativo e “recente”, con la Liguria.
Le evidenze documentali della presenza del vitigno in questo territorio partono, almeno per il Piemonte, dalla nota citazione dell’ordinanza emessa dalla municipalità di Dogliani tesa a regolamentare i tempi e le modalità per la raccolta dei “dozzetti”, del 1593, ma altre affascinanti tracce hanno alimentato differenti interpretazioni sull’origine. La più interessante vede l’editto del 1303 da parte del Podestà di Pornassio, Oddone II, Marchese di Clavesana, che impone la coltivazione dell’ormeasco (nome con cui oggi si identifica, dal punto di vista ampelografico, una varietà di dolcetto presente nell’areale di Pornassio, Nava, Ormea) nei territori da lui amministrati. Questa prospettiva ci porta, con uno sguardo storicamente di più ampio respiro, a considerare l’area d’influenza degli eredi di Bonifacio del Vasto da cui derivarono le linee dinastiche che ressero le sorti dei Marchesati di Clavesana, per l’appunto, Ceva, Saluzzo e financo la derivazione dei Marchesi del Carretto: un areale culturalmente uniforme, detentore del controllo sui punti strategici delle Vie del Sale che molto ci spiegano, anche sul vino e la diffusione dei vitigni (non ultima la presenza della Favorita nelle Langhe).
La pubblicistica a cavallo tra Settecento e Novecento, sembra dare per scontata l’origine piemontese, a volte situata nel Monferrato o nella Langa astigiana, altre volte spostando il baricentro verso l’albese. Il conte Giuseppe Nuvolone Pergamo di Scandeluzza, direttore della Reale Società d’Agricoltura di Torino ad inizio Ottocento, lo definisce senza incertezze “vitigno della tradizione piemontese”.
Gli studi ampelografici successivi, a fronte di una sempre più ampia diffusione, ce lo descrivono tuttavia come un vitigno tutt’altro che semplice da coltivare, piuttosto esigente in merito a condizioni pedoclimatiche ma in grado, nel giusto contesto, di produrre vini “fini ed abbastanza resistenti all’invecchiamento” (Garino Canina) o, ancora, “nelle località più adatte (…) è suscettibile di affinarsi invecchiando, tanto da arieggiare il Bordeaux” (Domizio Cavazza).
È una varietà tardiva per il germogliamento, ma precoce per l’invaiatura, tanto da essere presa a riferimento per la maturazione delle uve piemontesi a bacca nera, il dolcetto presenta una particolare sensibilità a umidità, temperature stagionali e disponibilità idrica nel terreno, e ci regala vini da sempre apprezzati per l’esuberanza cromatica, con colori intensi, fitti, dal porpora/amaranto sino al rubino e al carminio. Mai troppo dinamica la freschezza dell’acidità, è la trama tannica, profondamente piemontese, che fornisce al Dolcetto le armi migliori per presentarsi alla tavola regionale: tra i vini più versatili per struttura e adattabilità, gestisce con grande soddisfazione sia gli antipasti ricchi, sia i primi con sughi di carne, sia, ancora, secondi di carne di media struttura, tanto da essere considerato, da sempre, un vino davvero “da tutto pasto” (non a caso il simbolo del vino quotidiano per la tradizione contadina delle Langhe meridionali).
Oggi è sufficiente consultare i dati disponibili sulle superfici vitate in Piemonte, la vera roccaforte del dolcetto, o ascoltare i produttori storici di questa varietà, per percepire un clima completamente differente rispetto alle “fotografie” raccontate dal Conte di Rovasenda o dalle commissioni ampelografiche ministeriali dell’Italia appena unita: la tendenza degli ultimi decenni ha dettato una progressiva e inarrestabile riduzione dei vigneti ad essa dedicati, frequentemente convertiti alla coltivazione del più redditizio nebbiolo o di altre varietà che paiono più richieste dal mercato. Nonostante questo evidente calo di interesse, gli ultimi vent’anni hanno visto il dolcetto, come altri vitigni tradizionali, intraprendere le strade di valorizzazione delle proprie specificità territoriali, con l’istituzione di ben 3 DOCG in Piemonte, legate agli areali storici del vitigno: dal 2005 al 2010 sono nate le Denominazioni di Origine Controllata e Garantita “Dogliani”, “Diano d’Alba o Dolcetto di Diano d’Alba” e “Dolcetto di Ovada Superiore o Ovada”.
Oggi il Dolcetto, alfiere della più nobile e autentica tradizione del Piemonte meridionale, si trova ad affrontare una sfida ardua ma ricchissima di opportunità: mai come in questi anni la qualità della produzione è elevata, la perizia dei produttori nell’interpretarlo indiscutibile. Almeno due paiono le strade possibili per la rivalutazione del Dolcetto: una passa attraverso l’estetica contemporanea del bere vini territoriali ma non troppo impegnativi come struttura, alcol, potenza estrattiva, una sorta di recupero dell’immagine immediata, semplice e golosa del vino “quotidiano”, ideale viatico alla conoscenza del territorio nell’abbinamento con il cibo; l’altra, propone invece, assecondando la personalità del Dolcetto in alcuni territori d’elezione, espressioni di profonda fedeltà territoriale anche quando questa esprime vini di potenza, struttura, complessità e longevità, proponendo esperienze d’assaggio completamente differenti.
Potremmo concludere che, tra una constatazione e un auspicio, il dolcetto è il vitigno piemontese che oggi presenta il più ampio potenziale di ridefinizione del proprio paradigma, un futuro ancora tutto da scrivere… e degustare.
di Mauro Carosso Presidente AIS Piemonte