In un documentato e approfondito servizio sulla pasta ripiena italiana, il New York Times ha reso particolare onore agli agnolotti/raviole delle Langhe. La prestigiosa firma di Dawn Davis ha eletto le “raviole del plìn” fra le eccellenze, raccontando i contenuti culturali e antropologici che ne fanno un rito e un mito della civiltà della tavola albese. Il servizio uscito in due puntate del “T Style Magazine” (13 e 17 maggio 2024) inserisce ben due trattorie delle Langhe tra i 25 imperdibili italiani: la Madonna della Neve di Cessole e Da Gemma di Roddino.

L’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei vini d’Alba che ha collaborato con la giornalista statunitense, rende omaggio alle due trattorie con un racconto.

Le mani di Piera della “Madonna dla Cuca” di Cessole profumano di raviole del plìn. Serviti sconditi alla curdunà come nella tradizione casalinga della Langa astigiana, sembrano rosari e sanno di arcano. In primavera si sente l’ortica, in inverno la borraggine. I sapori che hanno tanto affascinato Ferran Adrià e Anne Sophie Pic.

Da Gemma, a Roddino, le raviole sono un rito sociale degno di studio. La loro preparazione ogni giovedì raduna le donne del paese in operosa fratellanza. “Una volta le facevamo quadrate, ora tutti le vogliono del plìn. Ma il ripieno è lo stesso: metà verdure e metà carne.”, racconta la cuoca.

Il gesto è antico, iterativo, sicuro. Ma il rapporto che unisce pasta e ripieno è ogni volta unico.

Sulle colline del vino e del tartufo patrimonio dell’Umanità, le raviole sono identitarie, femminili, rituali. Caratteri che troviamo definiti fin dal ‘400. E’ il marchio di piatto ricco e solenne delle occasioni speciali che accompagna le raviole lungo tutti i secoli. Particolarmente nella tradizione contadina, dove si affermano come componente imprescindibile del Carnevale, del Natale e della festa del santo patrono, nonché dei pranzi di matrimonio e di leva. Un vero e proprio rito della religiosità domestica contadina che evoca immagini di calda intimità familiare: la mamma a officiare il rito; tutti operosi attorno al tavolo; i bambini a gara per conquistare il diritto a usare la rotella; la conta delle raviole a dozzine; il primo assaggio, appena scottate sulla piastra del potagé.

Piatto “di forza” che la tradizione vorrebbe in brodo o comunque cotto in brodo. E che, in ragione della sacralità, pretende la massima qualità di ogni ingrediente. Un piatto laborioso del “giorno prima” e non del “giorno dopo”, di ingredienti studiati per solennizzare la festa e non di recupero degli avanzi della festa. Al punto che negli anni Sessanta, l’accademico della cucina italiana Carlo Nasi, raccomandando attenzione nella scelta del ristorante scrive: “Molto meglio farsi invitare in qualche casa dove alla confezione sovraintende la buona massaia.” 

Le raviole, dunque, sono “la festa” per antonomasia. Ma quadrate o del plìn? Tra Langa, Roero e Monferrato, la questione è di quelle serie. Appassiona e divide. Di certo non può essere ricondotta tout court all’ambito del gusto. Perché traccia confini geografici, storici, culturali. Perché sconfina nell’ancestralità antropologica della tanto rivendicata “albesità”. Pretendendo, quindi, rispettosa attenzione.

Innanzitutto si impone un’esigenza di chiarezza lessicale, poiché, qui e solo qui, “agnulòt” e “raviòre” sono termini sovrapponibili. E’ indubbio che in origine i due termini fossero riferiti a forme diverse. Segno del rimescolamento linguistico e gastronomico che nel tempo porta i due termini alla sinonimia. Un viaggio ancora tutto da indagare.

Se è vero che il nome non differenzia in cucina, è altrettanto vero che demarca. Infatti, mentre il primo è ecumenicamente condiviso in tutto il Piemonte, il secondo restringe settariamente il campo a quell’enclave culturale che ha il suo cuore nelle Langhe. A segnare un’ulteriore linea di demarcazione è poi la forma, giacché le raviole del plìn risultano espressione della Langa più vera e profonda. Una saggezza di cucina figlia della malora, ovvero della necessità di moltiplicare le raviole riducendone le dimensioni. E’ il miracolo del plìn, trasmesso oralmente di generazione in generazione come parabola del risparmio e diventato simbolo dell’internazionalità del gusto “made in Langa”. Una bella metafora del percorso compiuto dalle Langhe, capaci di rivoltare, ovvero “raviulé”, in moderno mito gli antichi sapori della  malora.

del Maestro Luciano Bertello